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La sorpresa di Dostoevskij e Pasternak
Il grande scrittore si lascia alle spalle un mondo un po’ diverso da quello esistente prima di lui, e io credo che il suo sia qualcosa di più serio di un semplice «influsso», e che i mutamenti che si introducono siano irreversibili. Noi viviamo nel mondo «dopo Dostoevskij», ed eliminare questa dimensione da ciò che accade è ormai impossibile: noi siamo persone «post dostoevskiane». Tanto più questo riguarda la letteratura e forse, in maniera particolare, la letteratura in lingua russa.

Dico «forse», con una certa dubitosità, perché tutta la letteratura universale si percepisce nettamente nell’epoca post-dostoevskiana, e nel corso del XX secolo, per cause evidenti, la lezione di Dostoevskij è stata recepita in maniera incomparabilmente più intensa all’estero che nella patria di Dostoevskij; è risaputo che la letteratura normativa del realismo socialista doveva costruirsi in una radicale assenza di Dostoevskij.

Non occorre specificare che appartenere all’epoca post-dostoevskiana non significa affatto essere prigionieri di Dostoevskij: significa semplicemente essere in rapporto con lui – magari in un rapporto di discussione. Non occorre specificare neppure che discussione non significa necessariamente confutazione, ma può intendersi come il desiderio di completare o, per usare le parole di Pasternak nel Salvacondotto, di fare le stesse cose, «solo con più ardore e compiutezza».

Proprio in questo rapporto sono, a mio parere, due epocali romanzi cristiani come Il dottor Zˇivago e L’idiota, in primo luogo per il disegno complessivo sotteso ai due romanzi, che potremmo approssimativamente delineare così: un’epifania, cioè il manifestarsi dell’autentico cristianesimo (ovvero: di un’«anima santa», di un «uomo di Dio», di un uomo somigliante a Cristo) nella società moderna.

Per Dostoevskij la santità rappresenta il medesimo scandalo del peccato abissale. Qui si verifica un salto di continuità: la bontà terrena, mondana, in lui non sfocia nella santità, fra esse permane un profondissimo iato. Il Sacro, il Divino viene inteso come l’«Assolutamente Altro». In questo è la disputa fra Dostoevskij e il cristianesimo liberale, l’umanesimo filantropico occidentale, di cui egli rappresenta la bonomia come una colpevole sconsideratezza, un’ottusità del cuore.

Anche rispetto al rigorismo ascetico della sua epoca, che salvaguarda gelosamente la devozione tradizionale, Dostoevskij si differenzia radicalmente: quello, infatti, è un assetto in cui sono possibili anche innumerevoli miracoli, ma la figura della cosa sacra come memoria della santità vi prevale indubbiamente sull’attesa di una sua nuova apparizione, principio di rinnovamento del mondo; è un assetto in cui le forme stesse della santità sembrano un già saputo e l’ambito del suo manifestarsi limitato (all’ambiente monastico, agli oggetti sacri ecc.).

In Dostoevskij, invece, il sacro appare nella sua semplicità e imprevedibilità (in un certo senso, senza aspetti miracolistici, senza la difesa del miracolo – si pensi all’episodio delle spoglie mortali di Zosima), e diviene scandalo (nel significato etimologico della parola greca skandalos – tentazione): scandalo innanzitutto per i custodi della tradizione (lo scandalo del Grande Inquisitore)1. E più in generale per le «brave persone»: «Perché mai tante esagerazioni? In tutto c’è una misura». Invece la misura non c’è, e questo denota la santità.

Due lieti fini non riusciti

Potremmo chiederci perché la santità e i santi siano scomparsi dalla letteratura dell’epoca moderna. Forse sono limitazioni poste dal realismo, dalla maniera realistica stessa? Forse si può raffigurare la santità esclusivamente con un’arte ieratica, nel simbolismo dell’icona, e non in uno schizzo dal vero?

Tuttavia le ingenue novelle dei Fioretti di san Francesco, in cui il realismo dei particolari della vita quotidiana non fa che accrescere il fascino e la persuasività della figura dell’«uomo nuovo», del «poverello di Cristo», confuta quest’ipotesi.

Più probabilmente, il santo non ha nulla a che fare con il soggetto della letteratura moderna – dal momento che è uscito, ha lasciato per sempre il mondo in cui si inscrive il soggetto: un mondo in cui l’interesse principale è dato dal destino e dal carattere. Né il primo né il secondo sono essenziali per il santo.

Egli infatti non è sottomesso al destino, mentre nell’arte moderna, come nella tragedia greca, ciò a cui assistiamo è in ultima analisi la vicenda tra l’uomo e il suo destino. E l’espressione tradizionale, se non esclusiva del destino nella letteratura moderna, è la passione amorosa.

Per quanto riguarda il carattere, esso per il santo non è così fatale, poiché il carattere è una cosa già creata, fissata, mentre il santo è un uomo che si lascia plasmare, in cui agisce tangibilmente la volontà creatrice di Dio, che – com’è noto – può suscitare figli di Abramo anche dalle pietre.

Né Dostoevskij né Pasternak hanno ricusato le condizioni del romanzo classico europeo, e questo in qualche modo li condanna all’insuccesso. Un «uomo assolutamente buono» (in entrambi gli scrittori quest’uomo è disperatamente «privo di carattere») si trova attratto nel campo magnetico del destino.

La sua santità (questo si può dirlo di entrambi i protagonisti) consiste nel suo essere disarmato. Non ha una volontà propria (sia l’autore, sia altri personaggi osservano più volte la totale assenza di volontà di Jurij ˇZivago, l’incredibile passività di Myškin, che ciascuno tenta di manipolare sotto gli occhi del lettore), non persegue un proprio interesse.

Eppure l’epilogo dell’Idiota – il ritorno di Myškin nell’annullamento della follia, l’Europa solitaria, dove soltanto si può «compiangere questo infelice», come dice la generalessa Epanˇcina – ci lascia con un’altra sensazione: quanto è accaduto nel romanzo non è stato un insuccesso o un fallimento, ma realmente il miracolo dell’apparizione di un Uomo che in qualche modo riscatta la vita di tutti coloro a cui è stato legato. Forse, a spiegare questa strana illuminazione ci può essere d’aiuto il finale del Dottor Z ˇivago: successivamente alla fine così anonima del protagonista, noi assistiamo alla sua vittoria dopo la morte, alla sua – per così dire – «seconda venuta», sotto forma del quaderno dei suoi scritti che capita nelle mani degli amici.

«Agli amici ormai invecchiati, seduti alla finestra, pareva che quella libertà dell’anima fosse giunta, che proprio quella sera il futuro si fosse tangibilmente calato in quelle vie, là sotto, che loro stessi fossero entrati nel futuro e lì si trovassero d’ora in poi»2.

Non è l’idea banale che la vita dell’artista è riscattata dalle sue opere a interessarci in questo caso, ma il tema dell’«entrare nel futuro», in una «gioiosa, commossa certezza per tutta la terra», in una «sommessa musica di felicità», come leggiamo di seguito.

Così pure anche quanti hanno preso parte alla vita del principe Myškin, che non lascia di sé alcuna opera a eccezione di modelli di antiche calligrafie, devono a lui l’esperienza che fanno, che «è sopraggiunta questa libertà dell’anima»: l’esperienza dell’immortalità.

Alcuni elementi dell’antropologia di Pasternak

Nelle lettere di Pasternak degli ultimi anni incontriamo ripetutamente l’idea di un «futuro già pronto», del sopraggiungere di una felicità senza eguali, talmente nuova che «le cose di prima sono passate» ed è ancora difficile rendersi pienamente conto delle dimensioni di ciò che è tramontato, morto, ormai irreale. Quest’esperienza di un’inaudita semplicità, novità ed eccezionalità:

ivago: successivamente alla fine cos2.

Non èAlcuni elementi dell’antropologia di Pasternak

Nelle lettere di Pasternak degli ultimi anni incontriamo ripetutamente l’idea di un «futuro già«dell’universo inaudito prodigio
e della vita novità
3»

è legata al suo lavoro al romanzo, e innanzitutto alla sua vita cristiana. Di ciò che è «passato», per molti aspetti fa parte anche il mondo di Dostoevskij – perlomeno le sue sfere morbose, oscure e irrisolvibili, che in gran parte sono state proseguite dalla letteratura del XX secolo, sia russa che europea.

Non che il sottosuolo, gli inferi della psiche, «le pieghe perverse» dell’anima siano aboliti: ma il loro svelamento non rientra più tra i compiti dell’artista contemporaneo, realmente contemporaneo, come Pasternak. Le catastrofi del secolo hanno trasformato le metafore profetiche del passato in una quotidianità che non ha bisogno di dimostrazioni; nelle immagini di questo genere non c’è ormai più futuro e, di conseguenza, non c’è più arte.

Noi tocchiamo qui brevemente e in maniera estremamente sintetica l’antropologia poetica di Pasternak4. In essa il fondamento di questa sorprendente certezza è dato dal fatto che il peccato, la morte, gli inferi – i novissima del pensiero ascetico tradizionale – sono superabili e sostanzialmente superati, che chiamando il nostro mondo «caduto», non diciamo l’ultima parola su di esso; è questa la certezza che tanto colpisce in tutto ciò che scrive Pasternak (e che molti suoi contemporanei
condannavano come una bonomia assolutamente anacronistica e irresponsabile).

L’uomo per Pasternak è innanzitutto l’artista, che in questa sua caratteristica è fratello dell’universo («mia sorella la vita») e discendente delle «supreme forze della terra e del cielo» («e non c’era nulla in comune con la devozione nel sentimento che provava, un sentimento di continuità rispetto alle forze supreme della terra e del cielo, di fronte alle quali si inchinava come di fronte alle sue grandi progenitrici»5).

L’essenza della creatività e dell’ispirazione artistica, come ne parla ripetutamente e in diversi modi Pasternak, nei versi e nella prosa, è la memoria dell’Eden, una memoria particolare: non il ricordo nostalgico di un’età dell’oro perduta per sempre, ma la memoria del paradiso come forza eternamente operante, «della memoria della vita futura dolce calice», per usare le parole del primo scrittore russo, il metropolita Ilarion di Kiev6.

La creatività «sorella della vita» e «sembiante divino nell’uomo», secondo Pasternak, possiede una forza di purificazione e di rigenerazione, poiché la vita stessa è già resurrezione dal non essere («Ecco, voi vi preoccupate se risorgerete, mentre siete già risorta quando siete nata, e non ve ne siete accorta»7).

La vita, la vita eterna, l’immortalità per Pasternak sono il nome di un’unica realtà. L’offesa arrecata alla vita («la vita è una favola calpestata», scrive in una lettera), non è irrimediabile e ultimamente non ne penetra tutta la profondità; poiché la vita si sottrae con facilità alla bassezza e al fango, così come alle lacrime: è quanto avviene alla Maddalena nelle poesie di ˇZivago, oppure alla protagonista del romanzo Lara. Nella figura di Lara – la nuova Nastas’ja Filippovna – la contrapposizione fra Pasternak e Dostoevskij è particolarmente evidente. L’infermità del mondo non è mortale, non è una «malattia per la morte», esso «dorme, non è morto» («riprendendomi come da un deliquio»). La santità appare come un medico, come un grande diagnosta – il protagonista del romanzo.

Generalizzando all’estremo, la santità in Pasternak non ha nulla di straordinario (sono ricorrenti i motivi della normalità, della quotidianità di ciò che è grande); la santità (ovvero la genialità, che per Pasternak è la stessa
Atlantide 2/11. Certi nel cambiamento

1 Un’immagine altrettanto scandalosa di santità, dirompente rispetto alla pietà tradizionale, la incontriamo nell’ultimo Tolstoj, in opere come Padre Sergij e La cedola falsa.

2 B. Pasternak, Il dottor ˇZivago, in Opere narrative, A. Mondadori, Milano 1994, p. 665.

3 B. Pasternak, Sotto la volta del cielo, ndc

4 Cfr. più in particolare O.S. Sedakova, Vakansija poeta: k poetologii Pasternaka (Il posto vacante di poeta: sulla poetologia di Pasternak), in Poetica, Mosca 2010, pp. 349-360.

5 B. Pasternak, op. cit., pp. 114-115.

6 Presbitero Ilarion, «Discorso sulla legge e la grazia», in L’Altra Europa, n. 1, 1987. ndc

7 B. Pasternak, op. cit., p. 89.
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