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Apologia della ragione
L A N U O V A E U R O P A 1 • 2010
Cominciamo dal titolo del mio libro: Apologia della ragione. Strana idea difendere la ragione, mentre questa sembrerebbe dominare incontrastata nella nostra civiltà, nella nostra attualità. Sembrerebbe invece che proprio da essa occorrerebbe difendere molte cose che di solito vengono ritenute irrazionali, estranee alla ragione: la natura, il sentimento, l’immaginazione, l’ispirazione, la fede… Tutto ciò che perisce e si dissolve alla cruda luce della ragione. Tutto ciò che è profondo, tenero, impalpabile, misterioso, miracoloso, intimo… Tutto ciò che la «ragione euclidea» (per usare le parole di un personaggio di Dostoevskij) non riconosce e non vede.

Ebbene, la prima cosa da cui voglio difendere la ragione e il sapere è proprio da questo modo di intenderli. Voglio difenderli dal modo di ridurre la ragione a una razionalità tecnica, e dal modo di intendere il sapere nello spirito del famoso slogan: «Sapere è potere». La conoscenza ti dà modo di impossessarti delle cose e di usarle. La nostra relazione con il mondo e con noi stessi si riduce sempre di più a svariate tecniche e tecnologie, e questo viene definito ragionevole.

La ragione tecnica, analitica, critica è una cosa buona di per sé e assolutamente indispensabile, ma se occupa tutto il posto riservato alla ragione è un disastro. La ragione nel suo nucleo centrale più profondo si chiama sapienza.

È proprio la sapienza che tiene a freno la ragione tecnica, analitica, il raziocinio, sempre pronto a oltrepassare i limiti. La sapienza sa dell’esistenza della sfera del mistero, dei limiti d’azione della ragione, altrimenti non sarebbe più sapienza. Mentre il raziocinio non lo sa. È un controllore universale, che si ritiene in diritto di verificare la verità di qualunque cosa, ma non controlla se stesso, né è in grado di farlo: dentro di sé non ha un criterio per compiere tale verifica. Tutti i criteri di questo genere li attribuisce alla sfera della «mistica», della «soggettività» e così via. Su di sé, sulle proprie azioni e impostazioni non riflette. Come un corvo, mettiamo, non è in grado di sapere che è un corvo, cioè un uccello appartenente a una determinata famiglia ecc., così anche la ragione tecnica non conosce il proprio posto nell’economia generale dell’attività intellettiva. Ma il corvo non è obbligato a saperlo, l’istinto lo spinge a comunicare con i propri simili, e non con gli usignoli, poniamo, mentre per la ragione è assolutamente necessario conoscere il proprio status, al fine – per continuare con il paragone del corvo – di non considerarsi «genericamente un uccello» o peggio, l’unico tipo possibile di essere vivente. Il paragone sembra strano? Paragonare il razionale alla natura? Il razionale, che parrebbe lontanissimo dalla biologia, con un animale senza l’uso della parola? Secondo me no. Abbiamo dimenticato, nelle nostre riflessioni su ciò che appartiene alla natura o no (la cultura), che esiste una cosa che si chiama natura umana, la natura esistente nell’uomo. Un uomo senza l’uso della parola non è già più un uomo. L’attività intellettiva e culturale, la capacità di far cultura appartiene a questa natura dell’uomo, che è homo sapiens. L’idea di una ragione che ne escluda il centro, cioè una sapienza non razionalista, non analitica, altera la natura stessa dell’uomo.

Per questo la nostra civiltà razionalista è così scandalosamente irragionevole (il problema ecologico ne è il primo segno evidente: pur avendo ben presente la natura che è esterna all’uomo, cui l’uomo provoca un danno che ha ormai raggiunto le proporzioni di una catastrofe, in tale evoluzione della civiltà non è meno minacciata la natura dell’uomo stesso). La nostra civiltà è «intelligente nei confronti delle cose secondarie, e stupida in ciò che è essenziale», per usare le parole di padre Aleksandr Sˇmeman: ha dimenticato la ragione-sapienza. Una ragione-sapienza che non si contrappone alla fede e alla creatività, al contrario. Su questo ha meditato molto il nostro Sergej Averincev.

Un capovolgimento

Qui vorrei ricordare la storia del primo poeta russo Aleksandr Pusˇkin, che la tradizione vuole che l’imperatore Nicola I definisse «l’uomo più intelligente della Russia». Il primo motivo che aveva sollecitato il giovane Pusˇkin a prendere le distanze dall’ateismo non era stato un «appello del cuore» o un «rimorso di coscienza», ma un’esigenza dell’intelligenza. L’ateismo gli appariva insoddisfacente dal punto di vista intellettivo: «Non ammettere l’esistenza di Dio significa essere ancora più stupidi dei popoli che ritengono che il mondo poggi su un rinoceronte» (da un manoscritto del 1827-1828)1. La battaglia tra il cuore di Pusˇkin e la sua intelligenza si svolse fin dagli anni del liceo – dicevo tra l’altro – in maniera opposta a quella consueta: «L’intelligenza è alla ricerca del divino, e il cuore non lo trova» (Incredulità, 1817)2; «Mon coeur est matérialiste, mais ma raison s’y refuse» (da un appunto di diario del 1821)3. Quando io raccontai questa storia a un convegno, Averincev mi chiese: «Ma perché pensa che questa strada sia l’opposto di quella solita? Secondo me è questo il percorso più naturale!». Il quadro di un cuore materialista che si contrappone all’intelligenza che cerca la fede, gli sembrava il più naturale! Noi invece siamo abituati a tutt’altro. La frase «intelligenza e cuore vanno ciascuno per suo conto», siamo abituati a intenderla esattamente alla rovescia: come una lotta tra l’intelligenza, principio «freddo», critico, sospettoso, e il cuore come principio «caloroso», «fiducioso», «buono». A credere è, senza alcun dubbio, il cuore, mentre l’intelletto – il «tagliente, freddo intelletto» – gli mette i bastoni fra le ruote. Il cuore crede (e al cuore bisogna credere), a dispetto della ragione e delle sue verità (la celebre dichiarazione di Dostoevskij: «Se la verità non è con Cristo, io resterò con Cristo e non con la verità»). La ragione e le sue «basse verità» ci suggeriscono che questo è «ingenuo» e «stupido». Tutti gli smascheramenti di «pregiudizi» e «credenze», tutta la propaganda atea per secoli sono stati attuati in nome della «ragione» e della «verità» (ovvero, negli anni sovietici, dal punto di vista della «scienza» e del «fatto»). Il cuore, se non si arrende alla «verità» e al «fatto», quanto meno li fugge evadendo nel mondo dell’«intimo» e dell’«inesprimibile», in un amabile inganno:

Le tenebre di basse verità, più care
ci son dell’inganno che ci eleva.

(A.S. PUSˇKIN)

Ma oltre a Pusˇkin e Averincev possiamo ricordare parecchie persone che sono state guidate alla fede dalla ragione e dalla verità, a dispetto del cuore. Tra di loro ci sono grandi figure cristiane del XX secolo come padre Aleksandr Sˇmeman: «“Le Coeur a ses raisons que la raison ne connaît pas”, B. Pascal. Talvolta ho l’impressione che a me succeda il contrario. È la mia intelligenza a credere, gioire della fede, ad essere in sintonia con la fede. “Ma il mio cuore è lontano...”. È alleato con la “carne”»4, e Albert Schweitzer: «Di me so che, grazie al pensiero, io resto credente e cristiano»5.

La contrapposizione stessa tra ragione e cuore, ragione e sentimento è nata solo dopo che la ragione è stata separata dalla pienezza della vita umana. Cuore e sentimento in questo modo sono venuti a coincidere con le emozioni, e la ragione con un freddo principio analitico, estraneo alle percezioni della vita. Nel linguaggio biblico il cuore e il sentimento sono la sfera in cui nasce il pensiero. Questa antropologia viene proseguita dalla tradizione dell’ascesi cristiana d’Oriente. Il pensiero nasce nel cuore, cioè nel nucleo più interiore dell’uomo. Di qui nasce la pratica ascetica della purificazione del cuore: solo un cuore puro pensa in maniera giusta. Un cuore irragionevole vede fantasmi.

Ebbene, in questo libro io vorrei difendere la memoria di questa ragione, che conosce la realtà nella sua interezza prima di distinguerne i fattori, la memoria di una ragione che conosce le cose entrando in contatto con esse, e non estraniandosene, e non della ragione fredda, implacabile, che non si stupisce di nulla e distrugge le «splendide illusioni» (come si è abituati a pensarla); al contrario, la memoria di una ragione che si stupisce incessantemente delle cose grandi e si prende cura delle piccole, perché il centro di questa ragione è la sapienza, e la sapienza «è lo spirito amante degli uomini», come sappiamo dalla Bibbia. Questa ragione crea le
«cose della cultura», che come dice Averincev, «esistono grazie a un mistero che non si può contraffare, il mistero della vita».

Il trionfo dell'irrazionale

Ho parlato della difesa della ragione da due lati. Finora ho parlato soltanto di uno, della riduzione e travisamento del concetto di razionalità. L’altro aspetto è la battaglia che si conduce da tempo (almeno dall’epoca del romanticismo) contro la ragione, nel tentativo di salvarsi nell’irrazionale. Quest’epoca sta continuando anche ora.

Mi sono fatta un quadro abbastanza chiaro del suo andamento, della sua traiettoria. Una volta mi è capitato di trovarmi nell’immenso archivio letterario di Marbach, dove sono appesi innumerevoli ritratti di uomini di cultura. Proprio lì questo quadro mi si è palesato con estrema chiarezza. Passando di sala in sala, dal XVIII al XX secolo, ho visto come ringiovaniscono i volti dei ritratti. Il moto dell’epoca culturale va a ritroso rispetto al corso della vita biologica «naturale» dell’uomo, dall’infanzia alla vecchiaia. Intelligenti e nobili volti adulti nelle sale del XVIII secolo, affascinanti volti giovanili del romanticismo nelle sale del XIX secolo e, arrivando al XX secolo, volti di «adolescenti difficili» in quasi tutti i ritratti.

La rivolta adolescenziale del modernismo (a cui non si può negare una propria verità e un proprio onore) viene sostituita nel postmoderno dalle trovate idiote del bambino viziato. Comincia un’infanzia caotica. Né un adulto, né un giovane, né un adolescente arrabbiato si metterebbe a fare quello che ci viene mostrato ora in rappresentazioni e performances: morsicare, guastare oggetti, spargere mucchi di immondizia come opere d’arte, e via di questo passo. Tutte le idee creative, i progetti e gli espedienti dell’arte odierna (dal realizzare opere in carta igienica o scotch, all’impaccare edifici e litorali, fondere sculture metalliche a forma di caramella delle dimensioni di un’automobile oppure mettere un coccodrillo sotto formalina) presuppongono una fase molto primitiva di evoluzione intellettuale. «I nuovi ritardati» (dal nome di uno dei gruppi artistici moscoviti di oggi). Così si esprime ai nostri giorni questo eone creativo, che ringiovanisce sempre più e sempre più si allontana dalla ragione.

Se ne allontana, ma in quale direzione? La scoperta dell’irrazionale sembrava la scoperta di un nuovo continente, di nuovi cieli e terre nuove, ma questa nuova terra è risultata non essere poi così ricca, e non esiste alcun cielo sopra di essa... Questo «inconscio» che si rovescia all’esterno ci lascia a bocca aperta per la sua monotonia. Che fare adesso? Esattamente di questo vicolo cieco parlano quanti definiscono «fine della storia» la fine di questo eone. Ma le persone intelligenti e adulte sanno che il mondo è già finito tante volte. È tempo di pensare a ciò che sta iniziando.

I miei interlocutori in questo libro non sono stati filosofi, ma poeti: Goethe, Dante, Pusˇkin, Pasternak. Di solito poesia e ragione si contrappongono fra loro. Ma proprio i grandi poeti sanno e difendono la ragione, il sapere di cui si parla nel mio libro, la «nuova ragione» di cui parla Dante:

Intelligenza nova, che l’Amore
Piangendo mette in lui, pur su lo tira.

1 Cit. in O. Sedakova, Apologia della ragione, La Casa di Matriona, Milano 2009, p. 137.

2 A. Pusˇkin, Bezverie (Incredulità), in Idem, Polnoe sobranie socˇinenij (Opera omnia), vol. I, Mosca 1962, p. 250.

3 Nell’appunto del 9 aprile 1821, Pusˇkin attribuisce queste parole all’amico P. Pestel’ (1793-1836), v. A. Pusˇkin Dnevniki (Diari), in Idem, op. cit., vol. 8, Mosca 1865, p. 17.

4 A. Sˇmeman, Dnevniki 1973-1983 (Diari 1973-1983), Mosca 2005, p. 518.

5 A. Schweitzer, Kein Sonnenstrahl geht verloren. Worte Albert Schweizers (Neanche un raggio di sole va perduto. Parole di Albert Schweitzer), Frieburg im Breisgau 1950, p. 59.


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